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Titolo dell’opera:
- Salvare la memoria
Dedica: Ai miei genitori Giovanni e Vittorina
Citazione d’apertura: La patria più vera e più nostra è la memoria.
Copertina:
“ Matrimonio Siculo/Americano. Inizio XX° secolo. “
Fotografia tratta dall’archivio personale dell’autore.
Recensione:
Un popolo o un uomo che dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo. Di questo lo scrittore ne è certo, come pure è convinto che, molto spesso, la connessione di circostanze cambia la prospettiva. Destino ineluttabile? Capriccio degli dei? Rivisitando alcune pagine della sua storia personale e quella dei suoi avi, l’autore conduce il lettore in alcuni meandri sconosciuti di storia patria: l’altra unità, schegge della 1^ e della 2^ guerra mondiale, il fascismo analfabeta, le lotte contro l’Agraria.
Attraverso le vicende di piccoli uomini ci fa intravedere le nostre origini, ci riporta alla memoria i sacrifici sopportati da gente umile, ma coraggiosa; dà valore al sudore e al sangue versato da ignoti eroi, verso i quali siamo in debito, che hanno consentito alle nuove generazioni di vivere una vita più consona alla dignità dell’uomo.
Prefazione
< Nuove genti crescono, altre declinano, in breve tempo mutano le stirpi mortali e come staffette si passano le fiaccole della vita. >
Alla luce di quanto canta Lucrezio acquista un senso il recupero dei ricordi e la salvaguardia della memoria.
L’autore non si ritiene un solitario isolotto disperso nell’oceano né un frammento di asteroide vagante nell’immensità dell’universo, lui pensa e crede fermamente che le esperienze, (comprese le più minuscole), vissute da ogni singola persona, coinvolgano nel bene e nel male tutta la società.
Certamente gli avvenimenti esterni ( quelle strane ed imprevedibili connessioni di circostanze) riescono a condizionare la vita, ma spesso non si ha la sensibilità per cogliere subito la portata di quello che ci accade intorno e, a furia di esaminare, scrutare e soppesare, si corre il rischio di perdere la giusta occasione.
Il filosofo ovvero il personaggio che scivola tra le pagine di questo libro non entra mai chiaramente in scena, perché è stato già ben definito nell’opera intitolata “Siamo tutti filosofi”. Però il suo cammino e la ricerca di una fede assoluta è evidente, così come è chiaro il tentativo di salvare dall’oblio del tempo i nomi degli antenati, al di là delle vicende più o meno romanzate.
Con le piccole storie di umili uomini riesce a fare esplodere nella loro tragicità, i fatti che hanno determinato la storia del nostro Paese.
“Salvare la memoria” è un libro che si proietta nel futuro. Le nuove generazioni, le staffette lucreziane devono sapere riconoscere i valori che hanno ricevuto in consegna (libertà, giustizia sociale, dignità, benessere, ecc…) e chi glieli ha affidati.
E’ un invito ai nostri giovani affinchè, con un atto di umiltà, riconoscano il proprio debito nei confronti delle generazioni che li hanno preceduti.
La consapevolezza del sudore, del sangue e delle lacrime versate per la conquista di ciò che oggi si dà per scontato, porta naturalmente a un atto di riconoscenza, un grazie che diventa auto gratificante, un grazie capace di fare gustare pienamente la vita.
Infine, su una parete bianca e ben in vista, l’autore appende un’opera fosca e scabrosa: il quadro degli scandali. Un’acquaforte che, nella sua sintetica incisione, costituisce il duro monito:< un popolo che dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo.>
Ettore Quarantanove
La prima pagina
Era il 2 novembre, il giorno della commemorazione dei defunti e, come era solito fare nelle festività, il filosofo invitò a pranzo il figlio con l’intera sua tribù composta dalla moglie e dai loro turbolenti figli.
Quel giorno però c’era anche un altro motivo a rendere eccitati ed impazienti i nipotini: la caccia ai regali portati dai morti.
Appena giunti a casa, i tre marmocchi accennarono un velocissimo saluto e corsero nella cameretta a loro riservata; dopo una breve ricerca, che faceva parte del rito-gioco, trovarono appesi all’interno del finto camino, sotto il letto e in un armadietto, alcuni grossi calzettoni di lana, quelli che una volta si facevano a mano.
Lestamente ognuno svuotò il suo e, tra grida di gioia e di meraviglia, mostrarono a tutti le sorprese rinvenute nei vari pacchettini: giocattoli, frutta martorana, caramelle e cioccolatini. Subito dopo quei momenti di giubilo si misero tutti a tavola per fare onore alle varie pietanze che, come sempre, risultarono all’altezza della ricorrenza.
Dopo aver mangiato con gusto il cuscus alla moresca e la torta di ricotta, specialità in cui la nonna era imbattibile, i bambini si ritirarono col nonno nella cameretta, il loro covo dei pirati, a sfogliare alcuni vecchi album fotografici. Ad essi piaceva quel gioco perché il nonno su alcune foto costruiva storie divertenti.
Trovarono una foto molto vecchia, e mentre la esaminavano, il più piccolo gridò:
< è il mio papà, è il mio papà.>
La più grande, con tono sicuro ed autorevole, lo riprese:< questo non è il tuo papà, è il nonno quando era giovane.>
Anche l’altra, per non essere da meno, disse la sua. Il filosofo li lasciò fare e disfare per un po’ e infine svelò l’arcano:< questo è il mio papà, il nonno vecchio, quando era ragazzo.>
“Nonno vecchio” era il nomignolo col quale i bambini chiamavano il padre del filosofo, avendolo sempre visto ritratto con le sembianze di vecchio.
Guardarono attentamente la foto ritoccata a colori: ritraeva un volto giovanile con i baffetti appena accennati; il borsalino sul capo ed il bavero del cappotto rialzato davano un colpo di classe all’immagine. Era proprio un bel giovane!
Il filosofo si soffermò a guardare la foto in silenzio, poi cominciò a parlare lentamente, come a se stesso.
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