|
|
|
|
|
|
|
|||||
Chi si accinge alla lettura di un libro ha il diritto che gli si dicano subito chiaramente gli argomenti trattati. Nel nostro caso è presto fatto. In un primo momento, viene descritto l’incontro, sempre traumatico, dell’uomo con la malattia e con tutte le sue sfaccettature; il grido di Giobbe che erutta dal suo petto: perché? Perché a me? Nel suo incontro increscioso col male, il nostro protagonista prova un moto di ribellione, non tanto nei confronti della malattia, ( che in qualche modo accetta ), ma verso chi gli sta intorno. Lui non vuole la pietà altrui, non accetta il sentirsi gestito, non accetta l’avere bisogno di aiuto per compiere anche le azioni più elementari. Una miriade di pensieri gli attraversa il cervello materializzandosi in immagini sgradevoli. Ciò che prevede lo porta al rifiuto della vita, di quel genere di vita. Durante il viaggio-fuga senza ritorno, il nostro uomo incontra alcuni personaggi che, non solo lo accolgono senza sapere chi sia, ma lo coinvolgono anche nelle loro discussioni. Tra quegli sconosciuti si sente tranquillo e, suo malgrado, partecipa a un dibattito sulle molteplici facce dell’istituto dell’Inquisizione, con l’intento di sfatarne la nera leggenda. L’escursione nei boschi lo porta ad un incontro determinante. Un frate eremita, prima gli racconta le sue esperienze di ex donnaiolo, gli mette in mano la sua vita, poi, dopo avere intravisto una breccia nelle sue difese, gli dice che Dio è il Signore della storia, gli spiega che lui non ha tanto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a capire il suo dolore quanto di una mano che lo aiutasse a sopportarlo e a donarlo. Dopo questi incontri, il viaggio comincia a prendere decisamente un’altra piega e, in una carbonaia, affronta e discute le tesi di un boscaiolo filosofo. Questi parla con un certo rancore dell’ambiguità della storia scritta dai vincitori, delle lotte post-unitarie (prime fra tutte, quelle al brigantaggio), delle poco conosciute quattro guerre che il nostro Paese ha combattuto nel periodo 1940-1947. L’incontro con uno strano personaggio, chiamato Angelo, lo convince a porre fine a quell’assurdo viaggio. Segue la descrizione di ciò che può succedere ad un risorto. Un rigenerato a nuova vita desidera fare tante cose nuove, ha tanti nuovi progetti da realizzare. Il nostro protagonista, tra l’altro, decide di contrastare il potere di chi gestisce l’informazione e la disinformazione. La fine del giornale è una grottesca parodia dell’arroganza, quasi mafiosa, di chi detiene il quarto potere. Tu puoi sconfiggere il cancro, puoi ritrovare la fede, puoi cambiare mentalità e stile di vita, ma nulla puoi contro la lobby dell’informazione, contro il Potere Arrogante, contro l’Entità (un termine così in voga oggi). Sembra che il libro finisca con una nota di pessimismo, ma non è così. L’amara constatazione serve a mettere in movimento gli uomini liberi e di buona volontà, affinché le cose cambino in meglio. Sono io, siamo noi che oggi dobbiamo agire, non possiamo aspettare che arrivino sempre “gli Alleati”. Ettore Quarantanove Zombi L’intervento chirurgico era riuscito perfettamente, il carcinoma era stato asportato insieme ad un rene e l’esame istologico aveva stabilito che la natura del tumore era benigna. Questo era quanto mi avevano raccontato i medici. Tuttavia, quei dolorini all’addome non mi lasciavano del tutto tranquillo. Durante la mia degenza in ospedale scoprii qualcosa che mi lasciò l’amaro in bocca. Alcuni infermieri, parlottando tra loro, chiamavano “il reparto degli zombi” due stanze situate in fondo al corridoio, in una zona più riservata dell’intero settore oncologico. Pensai alle motivazioni che avevano spinto il Fondatore a realizzare quella grande struttura sanitaria, e dentro di me provai quasi vergogna, delusione e disincanto per quel manifesto senso di adattamento, di abitudine e di assuefazione della natura umana. Il servizio che prestavano in quel reparto era un normale lavoro di routine, non c’era spazio per i sentimenti. Non li sfiorava nemmeno il dramma fisico e spirituale che stavano vivendo quelle persone che essi chiamavano “zombi”. Certamente non avrebbero usato quella definizione da film dell’orrore se avessero avuto coscienza del dolore. Anche loro ascoltavano le parole di conforto e di incoraggiamento che, ogni mattina, un frate rivolgeva agli ammalati, ma era evidente che quelle stesse parole, balsamo per gli uni, precipitavano nella voragine di un cuore arido per gli altri. |
|||||
|